LA VENERE DI URBINO, PUGNETTE DI GIOVENTU’

Non so se è mai capitato anche a voi di farvi una pippa osservando un’opera d’arte. Attenzione non parlo di “masturbatio artis sub generis”, tipo stropicciarsi il pipino con una foto di Newton (non quello delle mele ma quello della patata) o davanti alle porzioni di celluloide più hot del Diavolo in corpo di Marco Bellocchio o nelle pagine a fumetti di Lando o il Tromba. Io parlo di arte con la A maiuscola, gigante. Di farsi una manovella di fronte a un quadro. Sarà perché sono sempre stato raffinato, culturalmente evoluto o un segaiolo disperato ma a me da ragazzo capitava spesso e sempre davanti alla stessa immagine. Era evidentemente solo un disegno irrealistico ma quello sguardo della venere di Urbino mi ossessionava, me lo faceva venire duro. La conoscete? L’avevate mai guardata bene? E’ uno dei capolavori del Cinquecento, ma anche tra i dipinti più enigmatici della storia dell’arte. Forse per la morbida nudità, la misteriosa identità della giovane e il significato ancora oscuro.
Viene conservato oggi alla Galleria degli Uffizi. Olio su tela, 119.20 x 165.50 cm
Confesso che l’originale esposto a Firenze io non l’ho mai visto. Avevo solo una foto, comunque più piccola dell’originale, attaccato con quattro pezzetti di scotch agli angoli dietro l’anta di un vecchio mobile in tek dove mio padre custodiva i liquori. Per me quello era lo scrigno del vizio. Sesso e alcol, un sorso di Biancosarti, un’occhiata alla donna nuda, un incrocio col suo sguardo e una corsa in bagno per una gloriosa pugnetta tutto inebriato dai fumi del vermouth. Alla Kerouac!

Ma torniamo all’opera: ritrae un’adolescente distesa. Le lenzuola su cui è adagiata sono stropicciate, come se il fidanzato della ragazza se ne fosse appena andato. Vasari (molto molto, anzi infinatamente lontano dal mio mood) del dipinto elogia proprio le stoffe abilmente ritratte, «certi panni sottili attorno molto belli e ben finiti», quasi dimenticando la “Venere” dipinta da Tiziano. Gaetano Milanesi non dimentica invece la bellezza della donna: «è creduta la più bella Venere, o donna nuda, che mai dipingesse Tiziano».
Sono certo che tutti voi a questo punto vi aspettate un po’ di storia:
una delle poche cose che sappiamo con certezza della Venere di Urbino è l’anno del suo acquisto, il 1538. Lo attesta la corrispondenza che, in primavera, il suo committente Guidobaldo Della Rovere duca di Urbino scambia con Gian Giacomo Leonardo, ambasciatore di Urbino a Venezia. Nella prima di queste lettere, Guidobaldo dà istruzioni affinché il suo incaricato, Girolamo Fantini, vada a recuperare i due dipinti realizzati per lui da Tiziano: il suo ritratto e “la donna nuda”, come lui stesso appella il dipinto. E si raccomanda che Fantini “non parta per conto alcuno di là senza portarli”. Quanto al pagamento, prosegue il duca, garantisce che verrà effettuato e che se non potrà pensarci lui stesso, sarà sua madre, Eleonora Gonzaga, a saldare il debito con il pittore.
Qualcosa però va storto perché qualche mese dopo il signore di Urbino si trova a scrivere di nuovo all’ambasciatore per intimare la consegna del secondo dipinto, la Venere appunto, promettendo di impegnare qualcosa di suo in cambio. Possiamo supporre infatti che la Gonzaga – madre timorata – avesse acconsentito di buon grado al pagamento per il ritratto del figlio, ma non a quello per la donna nuda. Un soggetto a cui invece Guidobaldo non è intenzionato a rinunciare e che, in maniera a noi sconosciuta, riesce infine ad ottenere.
Io e il Guidobaldo avevamo qualcosa in comune, lo sento…
Più sotto vi sottoporrò un suo ritratto e ditemi voi se quegli occhi di cernia non rappresentano l’iconografia del segaiolo incallito.
Dieci anni dopo l’acquisto, la tela fu ammirata nella Guardaroba dei duchi da Giorgio Vasari, che per primo la identificò come una Venere. A Vasari e alla provenienza del quadro dobbiamo infatti il nome dell’opera che oggi si trova alla Galleria degli Uffizi. A seguito delle nozze di Vittoria della Rovere, ultima della casata, con il granduca di Toscana Ferdinando II de’ Medici, questa e altre opere della collezione furono trasferite a Firenze. Per molto tempo la Venere di Urbino rimase esposta nella Tribuna degli Uffizi, accanto alla cosiddetta Venere dei Medici, probabilmente per accostare due diverse interpretazioni dello stesso soggetto: la bellezza classica e ideale della scultura antica e quella sensuale, carnale del dipinto cinquecentesco.
Il dipinto non ha particolari significati mitologici o nascosti. il duca Guidubaldo avrebbe voluto in casa una donna così sexy per stuzzicare Giulia da Varano, la giovanissima moglie sposata nel 1534. Voleva che l’opera fosse educativa per Giulia e che le spiegasse la vita coniugale, la sua dimensione erotica e la necessità di essere fedeli.
Venere è adagiata su di un letto, completamente nuda. I capelli biondi le ricadono sulle spalle esaltando il candore della sua pelle. Con la mano destra Venere stringe un mazzetto di rose, con l’altra si copre il pube, e lo sguardo, reso ancor più seducente e ammaliante dall’atteggiamento della dea che gira lievemente la testa sfiorandosi la spalla, è puntato dritto negli occhi di chi la guarda. Sul lenzuolo bianco, sfatto, dorme un cagnolino, mentre più indietro, nella stanza, due ancelle stanno rovistando in un cassone: s’è pensato che Tiziano si sia ispirato al rito del “toccamano”, tipico della Venezia del tempo: era un’usanza in voga tra le giovani donne alle quali il fidanzato rivolgeva la proposta di matrimonio, e se la ragazza gli avesse toccato la mano, allora avrebbe espresso il suo consenso. Il rito prevedeva che la giovane venisse adeguatamente vestita: notiamo, dunque, che una delle due domestiche tiene sulle spalle l’abito nuziale azzurro e dorato.
La Venere di Urbino è una sorta di allegoria dell’amore coniugale, che nella mitologia antica era presieduto proprio dalla dea Venere: l’erotismo tutt’altro che velato, con la dea che pare quasi invitare lo spettatore a godere delle gioie dell’amore carnale, trova comunque una propria dimensione nell’ambito dell’amore matrimoniale, ed è funzionale a sottolineare l’importanza dell’unione fisica tra il marito e la moglie. Il dipinto potrebbe dunque intendersi come un quadro matrimoniale che Guidobaldo commissionò a Tiziano appena Giulia raggiunse l’età legale per la consumazione: era diventata sua moglie quando aveva soltanto undici anni (Guidobaldo ne aveva venti, e al pari di Giulia era stato costretto a sposarsi: il matrimonio era stato combinato dalle rispettive famiglie), e a quattro anni di distanza evidentemente era stata ritenuta pronta per accogliere il significato del dipinto, per ricevere l’invito al connubio che l’opera di Tiziano le rivolgeva, ispirandosi a un modello elevato e congruo al suo status. Il gesto della mano sinistra di Venere, che sfiora delicatamente i genitali, potrebbe essere del resto interpretato come un elemento legato alla necessità di giungere alla consumazione del matrimonio, ma non solo: la studiosa Rona Goffen lo ha interpretato come un gesto legato al massaggio clitorideo, che i medici del tempo prescrivevano come mezzo per favorire la procreazione.
L’erotismo della scena è dato dallo sguardo di Venere, dal suo corpo candido sul letto disfatto, così come dai suoi capelli. Le rose che tiene in mano, nel mito simbolo della dea, sono emblema di bellezza, ma l’atto di farle cadere può voler significare come la bellezza è effimera.
Il cagnolino ai piedi della Venere è un simbolo di fedeltà, così come la pianta di mirto sul davanzale è simbolo di matrimonio e di legame eterno, mentre i gioielli che la dea indossa sono simbolo di purezza.
Un altro significato che viene dato al quadro è quello di augurio di maternità, rappresentato dalle due ancelle che cercano i vestiti nel baule.
Il messaggio finale che Guidobaldo II vuole dare a Giulia da Varano è che bisogna essere sì sensuali, ma solo con il proprio marito e che la bellezza svanisce ed è meglio affidarsi a qualità più pure come la fedeltà.
Una santa fuori ma una puttana in casa, questo vuole il maschio!
«Una pin-up pura e semplice. – Tutto dipende da quel che lei intende, con questa parola. – Semplice: una bella donna nuda… O meglio, la sua immagine. L’immagine di una donna nuda, che si suppone debba eccitare l’uomo che la guarda, un’immagine della donna come oggetto sessuale. – La Venere di Urbino una pin-up! Questa poi…», scriveva in un irriverente saggio in forma di dialogo lo storico dell’arte francese Daniel Arasse (morto nel 2003) nella raccolta di testi uscita postuma in Italia Non si vede niente (Einaudi, 2013). Puntualizzando, per chi non voleva capire: il quadro «serviva a eccitare Guidobaldo». Ma con quella mano posata sensualmente sul pube la bellissima dea doveva anche stimolare il desiderio femminile in quanto, ricordava lo studioso, «la scienza diceva che le donne non potevano essere fecondate se non al momento dell’orgasmo».

Jozef Grabski scrisse: «Dobbiamo sottolineare che un disegno di fiori neri appare sul rosso del letto. Il fiore che cade dal bouquet potrebbe simboleggiare l’amore che è stato fisicamente interrotto dalla morte di uno degli amanti. Il frutto di questo amore permane, tuttavia, sia su un piano psicologico, nella fedeltà della memoria di una persona, che su un piano fisico […] Quindi mentre il rosso ed il nero formano un’armoniosa anche se drammatica scala cromatica, così fanno anche l’amore e la morte nell’esperienza umana».
Grabski sostiene poi che essendo il ventre della donna molto più tondo rispetto alla Venere dormiente di Giorgione, la ragazza potrebbe essere incinta. Da qui deriva il messaggio di speranza dato dal quadro: dalla morte alla vita, in un ciclo infinito portato avanti dall’amore.

La “donna nuda”, nonostante la sua dirompente modernità, non è da considerare quindi un’idea di Tiziano: piuttosto, il pittore cadorino aveva ripreso un’invenzione del suo maestro, il Giorgione (Giorgio Barbarelli; Castelfranco Veneto, 1478 – Venezia, 1510), che anni prima aveva dipinto la famosa Venere dormiente oggi alla Gemäldegalerie di Dresda, una raffigurazione della dea della bellezza nuda, distesa, colta mentre è assopita sopra un velo di seta, sullo sfondo d’un ameno paesaggio di campagna, probabilmente le colline di Asolo, ovvero un luogo familiare al patriziato veneziano dal quale proveniva il committente di questo dipinto. Un’immagine, quella di Giorgione, che esaltava la concretezza e la sensualità della bellezza femminile, probabilmente anche sulla base del legame tra l’erotismo e la potenza generatrice del sentimento amoroso: possiamo immaginare che questo dipinto sia stato commissionato in occasione del matrimonio del nobile veneziano Girolamo Marcello, dal momento che la prima menzione del dipinto lo registra nella sua casa. Inoltre, per la prima volta dall’antichità, la Venere di Giorgione offriva a chi doveva osservarla il ritratto d’una divinità nuda e addormentata, scopertamente erotica, come nessun altro prima di lui l’aveva raffigurata. Un’esaltazione della bellezza terrena che, di fatto, stabilì una moda, diede origine a un topos iconografico e orientò un gusto: la Venere di Urbino s’inserisce appieno in questo contesto, nonostante le molte variazioni con le quali Tiziano aggiornava il motivo iconografico.
La prima differenza rispetto all’antecedente giorgionesco è l’opposto atteggiamento della Venere: la dea di Tiziano, al contrario di quella di Giorgione, è sveglia e rivolge lo sguardo a chi la osserva, tanto che, secondo John Shearman, il dipinto era stato realizzato immaginando un preciso spettatore, e quello spettatore altri non poteva essere che lo stesso Guidobaldo II.

Se ne sono scritte tante sulla venere del tiziano, ampia è la varietà di letture che le sue donne possono garantire, ed è sempre l’ambiguità di questo straordinario artista a rendere possibile tale varietà. “Possiamo affermare”, ha scritto Sylvia Ferino-Pagden, “che Tiziano creò donne e tipi femminili, disegnandole ed ‘equipaggiandole’ secondo interessi diversificati ma esattamente calcolabili: le variabili da mettere in campo erano fondamentalmente bellezza ed erotismo implicito, magari arricchito da un abile gioco tra distacco e disponibilità, e dalla continua tensione tra promessa e astinenza, concessione e negazione, casto rifiuto e accenni di promiscuità. L’artista era in grado di dare corpo all’intera gamma dei discorsi poetici sull’amore. L’ambiguità era un elemento in grado di accrescere particolarmente il fascino erotico, e Tiziano ne faceva largo uso in questo tipo di opere”. È per questo motivo che è difficile trovare un significato che s’attaglia al dipinto meglio d’un altro: è invece più probabile che i livelli di lettura siano molteplici, che i significati vadano a intersecarsi, che un’ipotesi non ne escluda un’altra. E forse è proprio in questa sofisticata ambiguità che si cela la più parte del fascino che la Venere di Urbino emana da secoli.

Per chiudere in bellezza questo mio articolo dedicato ad “ars et masturbatio”, vorrei svelarvi cosa stava appiccicato all’antina destra dello stesso mobile in tek:
Gustave Courbet, L'origine del mondo, 1866, Olio su tela, 55 x 46 cm, Parigi, Museo d'Orsay
