IL “MERLIN” NON CANTA PIU’

IL “MERLIN” NON CANTA PIU’

IL “MERLIN” NON CANTA PIU’

Per arricchire il mio revival sul bello scrivere a proposito dei lupanari, e facendo seguito all’articolo dei bordelli in letteratura, mi è fatto obbligo di parlare della proposta di legge avanzata nel 1948 dalla senatrice Lina Merlin, che, dopo 10 anni di feroci discussioni e palleggiamenti vari, decretò la chiusura delle case di tolleranza su tutto il territorio nazionale. Visto che all’epoca, era il 20 febbraio del 1958, non ero ancora nato, non mi sento di esprimere alcun giudizio sulla bontà o meno di tale provvedimento, che cancellava un’istituzione che tanta parte aveva avuto nella formazione sessuale, e non solo, dell’Italia pre-repubblicana. Quindi, mi limiterò a riportare integralmente due articoli pubblicati da Repubblica che nell’estate di quel 1985 tante volte mi è capitato di rileggere e che tanto hanno ispirato i miei soliloqui di ventiduenne.

QUANDO LA TOLLERANZA COSTAVA CINQUE LIRE

NEL CALDO umido appesantito dall'odore del talco, del lisoformio, dei sudori e dei fiati, che era stagnante nelle case di piacere, l'umore della signora Fiorina, quella sera, era perfido. Stava nel suo ufficio di tenutaria della "Pensione Rossi", una "maison" di prima categoria nella romana via Mario de' Fiori. La "maitresse" Margot aveva lasciato la cassa. Confabulavano. Dalla "sala stampa" di via della Mercede, un fedelissimo cliente aveva portato la notizia che da tempo bolliva in pentola. Quella mattina, la senatrice Lina Merlin aveva presentato il suo progetto di legge per l'abolizione delle case chiuse. Era il 16 agosto 1948. L'Italia aveva da poco superato il trauma, le paure dell'attentato a Togliatti. Quella sera, anche la "sciura Maria" e la "sciura Virginia", austere sacerdotesse dello ieratico "Filelfo", il casino milanese che contendeva il primato d'eleganza, di erotismo "per bene" al vecchio "Disciplini", badarono assai poco ai clienti. La notizia le preoccupava. Giuseppe Erre, detto S' ciossola, tenutario di quattro bordelli a Milano e di altrettanti nell'hinterland, aveva fatto spallucce. Non si era mosso dalla cassa del "Porlezza", tanto ricco e a milioni era già diventato. Ma le "sciure", no. Loro avevano aperto da poco, rilevando gli arredi, i tendaggi, le specchiere, i moretti veneziani del mitico "San Pietro all' Orto" che era stato smantellato dalle ruspe. Quella sera, i casini d'Italia furono irti di imprecazioni. Sembrano passati mille anni, ora che la legge Merlin è allo studio della commissione parlamentare per una riforma più liberale. Invece, sono meno di quaranta e dieci di questi se ne andarono in una battaglia che divise l'Italia. Avrebbe dovuto avere vita facile quella crociata. La senatrice (gli avversari la chiamarono "amica della spirocheta pallida") aveva alle spalle la recente vittoria di Marta Richard in Francia. Sul finire del 1946, le "maisons" (nella sola Parigi se ne contavano 171) erano state abolite. Alti erano stati i lamenti, i dolciastri, crepuscolari rimpianti per le alcove dello "Chabanais" di Eugene Gambier, per quelle camere che offrivano all'erotismo la spintarella dello stile moresco, pompeiano, gotico, giapponese. Per qualche anno, la memoria e le melanconie esaltarono l'affabilità suadente di madame Fabienne, "maitresse" dell' "One Two-Two" in rue de Provence e l’arredo di quel postribolo di lusso: la camera tirolese, la campestre, l'africana, il "transatlantico". Ma Marta Richard non aveva dovuto molto penare. Il terreno era già stato arato, dieci anni prima, dal Fronte Popolare. Nel 1936, la questione delle case chiuse era stata posta dal ministro socialista Henry Sellier. I tenutari, i "tenanciers" si erano riuniti in consorzio, avevano messo insieme 4 milioni di franchi, una cifra enorme per quell' epoca. Avevano pagato, corrotto e vinto. Ma quella sconfitta degli abolizionisti preparò il successo di Marta Richard. Ben diverso ed estenuante fu il cammino della legge Merlin: dieci anni di corse in avanti e di subitanei dietrofront, all' insegna di un possibile "boom" della sifilide, del "via libera" ai gonococchi. L'Italia non aveva una tradizione abolizionista. Lina Merlin non aveva predecessori. Rare erano state, nel tempo, le voci contrarie al "meretricio di Stato". Nel 1888, mentre il parlamento dedicava otto sedute alla prostituzione legalizzata, solo il deputato Corrado Tommasi Crudeli parlò di "Stato super-mezzano". Da più di un ventennio, l' Inghilterra aveva sbaraccato le "case", ma il governo Crispi, che stava per impantanarsi nelle ambizioni coloniali, badò soltanto a riordinare: più controlli medici e divieto del gioco, del vino dentro le "maison" dentro i "ciabot" come dialettalmente li chiamava l' onorevole Vigoni che, nel ricordo di un' esperienza, definita fuggevole, al "Babi" di Torino, votò a favore dei divieti, parlando di "atmosfere appesantite dal lezzo delle pratiche vergognose e dai fiati carichi di vino" e lamentando: "Pareva impossibile che quei bruti divisi tra la foia e il bicchiere, fossero studenti votati al sapere, soldati votati alla gloria della patria". Tutti lamentarono, ma tutti tolleravano. Non fu il senso morale, nè l'indignazione democratica per le gabelle sugli orgasmi a pagamento a spingere il presidente del Consiglio Saracco ad una larvata minaccia al "pacifico esercizio della prostituzione". Era l'estate del 1900. Si trattava solo di zelo verso i Savoia. In una casa da 2 lire, "El Peocet", del milanese Bottonuto, l'anarchico Bresci, prima di uccidere Umberto I, si era rilassato, ma senza "consumare", nel letto di Alberta Magnani, la più bella della quindicina. "Non possiamo dimenticate che il mostruoso delitto è stato preparato in una casa infame" gridò Saracco. Invece, dimenticarono. Bisognerà aspettare il 1919 per riascoltare in Parlamento un attacco ai bordelli. Quello di Filippo Turati: "Nei postriboli controllati dallo Stato borghese, i lavoratori si avviliscono, corrompendo le loro figlie più sfortunate". Ma, quella di Turati, era una voce ormai fioca. Più forte era la voce della reazione già in camicia nera. L'attacco si spense nel nulla, mentre gli squadristi del sansepolcrismo, capitanati da Mario Giampaoli e Ferruccio Vecchi, si corroboravano, prima di manganellare, nella "maison" milanese di San Carpoforo. Flanellavano fra grasse epigoni di Mimì Bluette e aggressive maschiette. Poi, al grido "Camerati in camera" lanciato dal tenutario Cesare Albino Bianchi, salivano per una "doppia". I patrons delle case non ebbero nulla da temere dall'avvento del fascismo. Potè dormire sonni tranquilli quell'Albino Bianchi che, negli anni in cui ancora si cantava "Se potessi avere mille lire al mese", vantava introiti di 5 mila lire al giorno. Era il tenutario del già leggendario "Disciplini" che obbligava ad abbandoni da 20 lire, dei tre "cinque lire" di Fiori Chiari e, sempre a Milano, dell'antichissimo "Cilinder" al Verziere, dello "Scudino" di via San Cristoforo, del popolaresco San Carpoforo, della "Grotta Azzurra" di Pavia, di due casacce per militari in via Dell'Amorino a Firenze, della "Suprema" di La Spezia (al 50 per cento) e più tardi del milanese "San Pietro all'Orto" che ristrutturò con evocazioni liberty. Neppure le trattative per il Concordato offuscarono il cielo delle "maisons des plaisirs". La Chiesa aveva ben altri problemi e ben altre concessioni da spuntare. Del resto, anche la Roma papale aveva tollerato. Predisposto fisiologicamente al sesso spiccio, alla "sveltina" da ufficio, Mussolini non si pose la questione, se non per il sospetto che, nel flanellare dei casini, si potesse tramare un'irridente fronda al regime. In un appunto di suo pugno al capo della polizia, Arturo Bocchini, si legge: "Occhi aperti sui casotti. Possono darci delle noie. Puntare specialmente sulle fallofore straniere. Francesi in prima linea". Non si fece convincere dalle tesi abolizioniste, neppure nel pieno della campagna demografica e del sesso "comandato" a procreare soldati. Lesse, come ricorda Giancarlo Fusco in una bellissima memoria sul mondo delle case chiuse, un saggio giuridico di un collaboratore del guardasigilli Alfredo Rocco che stava fascisticamente riformando il Codice e le leggi di pubblica sicurezza. Meditò sulla frase "il meretricio tollerato e statale contrasta con il clima di salute fisica e morale, di luminosità spirituale e di orgogliosa dignità umana che è la vera sostanza ideologica del fascismo". La apprezzò. Fece premiare l' aiutante di Rocco. Ma abbozzò: le marchette non avrebbero spento quella "luminosità". Il rischio era troppo grosso. La virilissima Italia era radicata nei casini. Le adunate si concludevano sempre là dentro. Gioventù littoria e militi lasciavano i gagliardetti appoggiati al muro esterno, di fianco all' immancabile orinatoio, e si concedevano 5, 10, 20 lire di sbiadito orgasmo. Non se ne fece niente, al di là di qualche giro di vite; di un'occhiuta vigilanza e di qualche spione dell'Ovra mandato a far flanella nei postriboli per sventare l'antifascismo, quasi che l'opposizione, allora timidissima, si liberasse liberando gli ormoni. Nei salottini dei romani "Grottino" e "La Piera", di "Saffo" e della "Rina" a Firenze, dell'"Orientale" a Venezia, dell'"Orso" di Bologna, l'Ovra, la polizia politica, stava a orecchi ritti. Erano "case" di lusso, borghesi, per l'erotismo altolocato. Nei lupanari da battaglia per il popolino, per la truppa, quelli piastrellati e grevi di sentori della "Sbarra" a Milano, di vicolo Soderini, di Panico, delle Colonnette a Roma, bastavano i poliziotti in borghese. E, qualche volta, non lasciavano correre. Erano prontissimi a cogliere nel volgare esplodere del linguaggio le più innocenti avvisaglie di disfattismo. Ne fece le spese il caporale Norberto Placidi. Sulle scale di un casotto di vicolo delle Capannelle a Roma, spingeva da tergo una "signorina" verso un fulmineo "congresso carnale" e le diceva a piena voce: "Viè, fregnadoro, che mò te metto er duce a villa Torlonia". Fu arrestato per vilipendio. Uno studente fu ammanettato perchè, alludendo al proprio strumento, diceva a una riedizione di Luisa Ferida: "Questo sì che è volitivo. Altro che la mascella del capoccione". Ma il giro di vite non fu soltanto di sorveglianza politica. Quando Mussolini decise che il maschio latino, le donne non le paga, le conquista, cominciarono le punzecchiature. Niente di grave. Il regime tollerava, come aveva fatto l'Italia di Cavour, quella di Crispi e di Giolitti e come, per 10 anni, fece quella repubblicana e democristiana. Non aboliva, ma assediava di divieti: sequestro della licenza ai tenutari di quelle case che il risanamento edilizio e gli sventramenti littorii radevano al suolo; braccio corto nel rilascio di nuove licenze; ritiro dei permessi alla morte dell'intestatario. Non si ammettevano, insomma, dinastie di "patrons". Ma, anche in questo campo, la politica era quella del bastone e della carota. Da una parte si sfoltivano le licenze, dall'altra le si concedevano ai raccomandati, a qualche antemarcia (il casino di via Rutilia a Milano debuttò nel 1940, alla vigilia della guerra) e si premiavano con il titolo di commendatore i tenutari che, in Abissinia, avevano ben meritato della patria, scaricando nelle terre d'oltremare i rifiuti delle "maisons" italiane e limitando così la fornicazione dei coloni con le indigene, tanto invisa alla difesa della razza. Quanto a tradizione, il progetto Merlin navigava, dunque, nel vuoto. Fu proprio questo vuoto, e non le manovre affannose e non convinte dei tenutari, a disseminare di steccati il cammino della legge. Si cominciò a discuterla al Senato, nell' autunno del 1949 e rapidamente fu approvata. Era il dicembre di quell' anno e iniziò il tira e molla, con la Camera che non completava il lavoro del Senato. Finivano le legislature e tutto riprendeva da capo. La legge rimase a bagnomaria. Intanto i tenutari si erano organizzati, costituendo l'"Associazione Gerenti Autorizzati" che, però, non ebbe la grinta di quella francese negli anni Trenta. Su 1300 iscritti (tanti erano i "patrons" anche se le case erano in tutto 717, perchè molte licenze avevano più soci), solo 627 presero parte alla prima riunione nel 1950. Poi, le presenze andarono scemando e le proposte anche e i quattrini per la controffensiva pure. Il decano, Remo B. di Roma, suggerì di accettare l'abolizione purchè si lasciassero sopravvivere casini strettamente riservati ai militari. Un altro pezzo grosso partorì l'idea di un baratto: devolvere il 30 per cento degli utili netti al fondo di disoccupazione, a patto che il governo bloccasse la legge. Scesero in campo i catastrofisti della sifilide. I giornali satirici presentarono la senatrice Merlin come la madre dei Gracchi. Mostrava una spirocheta pallida e un gonococco e diceva: "Questi sono i miei gioielli". Di rimando la senatrice socialista sbandierava mazzette di lettere, missive di prostitute che inneggiavano alla crociata. Una affidava la sua disperazione a un dato: "Centoventi uomini al giorno, centoventi bidet. E' così da tutta la vita". Passavano le legislature e, intanto, i tempi cambiavano. L' Italia maschile si stava abituando all' idea delle serate senza casino. La televisione aveva acceso il suo monoscopio. "Lascia o raddoppia" sarebbe stato il succedaneo del far flanella, della marchettina veloce, digestiva. Il 4 marzo 1958, gli abolizionisti vinsero. La legge lasciava cinque mesi e passa per liquidare le "imprese". Sarebbe scattata il 20 settembre, giorno della presa di porta Pia. Ci furono resse alle porte di "Borgo Tasso" a Parma, al "Superba" di Genova, al "Fiori Chiari" di Milano per l'addio. Ma nessun dramma, nessun trauma. In fondo, non era una questione nazionale. Ci si accorse che su oltre 7 mila Comuni solo 260 avevano avuto una casa di tolleranza.

di GUIDO VERGANI

24 luglio 1985 la Repubblica