AMENITA’ SESSUALI: EPISODIO 7

AMENITA’ SESSUALI: EPISODIO 7

Affetto da un raffreddore decisamente invalidante che mi costringe a casa, per contrastare il deprimente scorrere del tempo chiuso tra le mie quattro mura silenziose, ho deciso di regalarvi un ulteriore episodio delle amenità sessuali, che ci accompagnano ormai da parecchie settimane.

I fatti e le circostanze di tali amenità raccontano il nostro presente e il nostro passato, spesso figlie di una cultura in via di estinzione, altre volte prodotto della nostra natura e, per questo motivo, praticamente inestirpabili.

Non c’è giudizio e né condanna nei confronti dei fatti narrati, ma solo uno sguardo curioso e acritico, come potrebbe essere quello di uno storico o di un umarell indulgente.

E, dal momento che non voglio deviare in alcun modo l’opinione di voi lettori, vi lascio immediatamente alla lettura di questo settimo episodio.

Jennifer Lawrence ha davvero "accontentato" Harvey Weinstein per ottenere ruoli cinematografici? Lo ha davvero affermato nella sua causa?

"Jennifer è venuta a letto con me e guardate dove è finita, ha vinto un Oscar".

Questo è ciò che Weinstein stesso ha detto sul caso. (È un uomo così umile).

La stessa Lawrence ha ufficialmente (più o meno) smentito l'accusa:

"Harvey Weinstein e la sua compagnia continuano a fare quello che hanno sempre fatto, cioè togliere le cose dal loro contesto e usarle a proprio vantaggio. Questo è ciò che fanno i predatori e deve finire".

Ma cosa intende con "togliere le cose dal loro contesto"?

[La bella coppia].

Non ho idea del perché sia stata usata questa particolare formulazione, invece di dire semplicemente che non ha fatto sesso con lui.

In realtà, ho la sensazione che intendesse dire quanto segue:

"Anche se fossi andata a letto con lui - cosa che non ho fatto! - non è per questo che ho ricevuto l'Oscar!".

So che in altre occasioni ha smentito l'affermazione con parole diverse, ma comunque la dichiarazione di cui sopra mi sembra strana.

Personalmente, credo che Weinstein potesse davvero piacerle in carne e ossa, e personalmente penso che rimanga un'attrice molto capace, a dispetto di quanto possa aver fatto tra le lenzuola.

I gusti sono una cosa personale, credo.

Le case chiuse durante il fascismo: come funzionavano?

Patria, famiglia.... e bordello. Erano le parole d'ordine più o meno ufficiali del regime che vide nelle tolleratissime case di tolleranza un luogo di incontro (e controllo) di intrepide generazioni in camicia nera.

La regolamentazione del sesso a pagamento in Italia è durata parecchi decenni. Cavour nel 1859 autorizzò l’apertura di case controllate dallo Stato per l’esercizio della prostituzione in Lombardia. L'anno successivo il decreto diventa legge. Nascono le “case di tolleranza” (perché tollerate dallo Stato) di 3 categorie: prima, seconda e terza. Furono fissate le tariffe, la necessità di una licenza per aprire una casa, le tasse da pagare e istituiti controlli medici sulle prostitute per contenere le malattie veneree. Nel 1888, secondo la legge Crispi, all’interno delle case di tolleranza era vietato vendere cibo e bevande, fare feste, balli e canti. Non si potevano aprire case di tolleranza in prossimità di luoghi di culto, asili e scuole. Le persiane dovevano restare chiuse (da qui il nome “case chiuse”).

Nelle case chiuse fasciste il cliente, scelta la ragazza versava alla cassa il suo obolo, pagando in anticipo la prestazione e riceveva in cambio una marchetta o un gettone (v. riquadro) che in camera consegnava alla fanciulla, come nella foto.

Parola d’ordine, virilità. Detto in altri termini: due orgasmi al giorno. Così voleva il Fascismo, perché i giovani in camicia nera non potevano permettersi di “battere la fiacca” nemmeno sotto le lenzuola.

Ma come conciliare questi ritmi gagliardi con la politica demografica del regime che prevedeva famiglie sempre più numerose? Potevano mai le mogli devote, trasformate in angeli del focolare, far fronte da sole sia ai marmocchi, sia alle virili esigenze dei loro intrepidi mariti?

Case chiuse.

Fu anche per risolvere questo rompicapo che nel Ventennio vennero in soccorso le case di tolleranza, regolamentate da leggi severe, ma sempre molto frequentate. Nei bordelli andavano uomini di tutti i tipi: gerarchi, ufficiali, mariti, ragazzini alle prime esperienze e curiosi dal braccio corto, i cosiddetti “flanellisti” che bighellonavano per lustrarsi la vista, senza mai investire un soldo. “Su, su giovinotti... O commercio, o libera la sala”, ripeteva spesso la maîtresse per tenere il ritmo dei guadagni.

La consumazione non era obbligatoria, ma quasi. Il cliente, scelta la ragazza, di solito vestita in modo seducente da una sarta del bordello, versava alla cassa il suo obolo e riceveva in cambio una marchetta che in camera consegnava alla fanciulla. A fine serata il numero di oboli in suo possesso definiva anche il compenso.

Prostitute low cost.

Come per gli alberghi, a contare erano le stelle: si andava dalle pregiatissime case chiuse a quattro stelle, al servizio low cost di due. E più diminuivano gli astri più aumentavano stazza ed età delle “signorine”.

L’esperienza? In teoria era garantita in ogni caso perché per accedere al mestiere il regime richiedeva un tirocinio. Ma le delusioni potevano essere dietro l’angolo.

Le descrisse bene, anni dopo, il giornalista e scrittore Dino Buzzati: “Non tutte quelle donne erano delle grandi artiste. La maggior parte si limitava a prestazioni affatto rozze o banali. Di tanto in tanto si incontravano però dei tipi che facevano addirittura trasecolare, oltre che per la bellezza, per il garbo, il magistero tecnico, la fantasia, l’intuito psicologico, la passione del mestiere, perfino la delicatezza d’animo, tutte qualità che oggi invano potete cercare sui marciapiedi, nei night e nelle case d’appuntamento”.

Casa di piacere.

Chi entrava in queste case chiuse, raccontate nel Dopoguerra anche dalla penna di Piero Chiara e dalla cinepresa di Federico Fellini, si trovava in una grande stanza da cui si accedeva allo studiolo della direttrice o al locale della polizia. Gli agenti, messi lì dal partito, avevano il compito di verificare l’età degli avventori, che per legge dovevano avere almeno 18 anni.

Nello scantinato si trovavano la cucina, la lavanderia e la sala da pranzo. Ai piani superiori invece c’erano le camere da letto e la sala d’aspetto, con affisse alle pareti le regole di prevenzione sanitaria, i regolamenti e le cartoline sexy per accendere le fantasie dei clienti.

Le stanze “da lavoro” avevano un letto, un lavandino, un bidet e un armadietto in cui si custodivano profilattici e creme per la profilassi. A portata di mano c’era spesso anche il dentifricio, il borotalco e un sapone di lisoformio. Il riscaldamento era a legna: in ogni camera c’era una stufa che riscaldava anche una pentola piena d’acqua per umidificare l’ambiente.

Il tubista.

Periodicamente le ragazze erano sottoposte a visite ginecologiche: un’altra delle regole imposte dal regime. La tutela sanitaria fu anzi uno dei cavalli di battaglia del fascismo: non più prostitute sulle strade, ma al sicuro, nei casini.

A onor del vero, il duce non vide mai di buon occhio i postriboli. Li trovava in contraddizione con la politica demografica che sponsorizzava, ma non se la sentì di privare i suoi ragazzi di quel “passatempo”. Anche perché le cronache riportano che nei giorni immediatamente successivi alla Marcia su Roma i bordelli della capitale si erano riempiti di giovanotti in camicia nera.

Optò quindi per una linea di compromesso: non dare più licenze per l’apertura di nuove case chiuse e regolamentare quelle esistenti. Così, il 25 marzo 1923, arrivò la legge che imponeva i rapporti periodici igienico-sanitari per la profilassi delle malattie veneree e sifilitiche, quelli amministrativi e quelli di ordine pubblico.

I “tubisti” (i ginecologi) incaricati di visite periodiche, dovevano annotare con regolarità sul libretto sanitario gli aggiornamenti sullo stato di salute delle ragazze (non senza ricevere pressioni dalle tenutarie). Mentre un sistema di registri schedava chi si dedicava al “mestiere”.

Bocche cucite.

Al regime, peraltro, faceva comodo monitorare i bordelli. Qui infatti si potevano rifugiare facinorosi, avversi al duce. Per questo gli organi di pubblica sicurezza, ma anche la polizia politica, aveva nelle case informatori e informatrici: le cronache raccontano che negli Anni ’30 un certo caporale Norberto Placidi mentre saliva le scale con una prostituta esclamò “Vie’, fregnadoro, che mo’ te metto er duce in Villa Torlonia”.

Chi sapeva tenere la bocca chiusa, invece, poteva continuare a godersi delle novità. Ogni due settimane c’era la “quindicina”: ogni bordello “aggiornava” le fanciulle che arrivavano in città su camioncini scoperti, sfilando per avvertire gli abitanti della nuove reclute della casa.

Tette e bandiere.

Che fine ha fatto quel mondo, si sa: la battaglia della socialista Lina Merlin portò alla chiusura dei bordelli nel 1958. “Non chiamatele prostitute; sono donne che amano male perché furono male amate”, disse per difendere la sua legge. Si aprì così un nuovo capitolo, non ancora chiuso, ma sempre dibattuto.

Con buona pace di Indro Montanelli, che sulla questione disse la sua, non senza sarcasmo: “Tette e bandiere sono il riassunto della storia d’Italia. I suoi inseparabili pilastri, il motore per comprenderle”.

Lina Merlin. Il 20 settembre 1958 entra in vigore della legge numero 75 (conosciuta come “legge Merlin”, perché voluta dalla deputata socialista, prima firmataria) che pose fine alla regolamentazione della prostituzione in Italia, chiudendo le case di tolleranza. Settecento casini (questo era il nome) furono chiusi, lasciando senza lavoro quasi 3 mila prostitute.

Quale fu la prima foto che ha mostrato persone senza vestiti?

Sembra che questa sia stata la prima fotografia di nudo, almeno non se ne conoscono di più antiche.
Risale al 1850 e si chiama Due nudi femminili in piedi.

Il francese Félix-Jacques-Antoine Moulin la creò e fu condannato a un mese di prigione perché considerato osceno.

Eppure la trovo bellissima, perché le due giovani donne sembrano incontaminate e naturali, come due dee della bellezza.

Quali erano le sporche vite segrete delle concubine imperiali cinesi?

Nell'antica Cina, le concubine imperiali occupavano le proibite corti interne del palazzo, servendo esclusivamente l'imperatore. Dopo la morte nel 1424 dell'imperatore fondatore Ming, Hongwu, 30 concubine ricevettero il famigerato decreto di seta rosso sangue, che le condannava a morte. Ciò simboleggiava la precaria esistenza delle concubine imperiali, intrappolate nel lusso ma del tutto senza potere.

Reclutate da adolescenti, le concubine sopportavano un addestramento intensivo sulla condotta adeguata prima di entrare nel palazzo. Il loro compito principale era partorire un erede maschio, sebbene poche attirassero l'attenzione dell'imperatore. Covavano rivalità mentre gareggiavano per rango e favori. Il contatto con il mondo esterno era proibito e le infrazioni comportavano severe punizioni.

· La sontuosa Città Proibita era anche una prigione dorata che rinchiudeva migliaia di concubine cinesi imperiali nel corso dei secoli. Le routine quotidiane di bagni, trucco e arti non potevano compensare le costanti macchinazioni, gelosie e isolamento. Persino invecchiare e perdere l'interesse dell'imperatore offriva poco sollievo, con il ritiro in tetri conventi come destino comune.

· Alcune concubine coltivavano relazioni strategiche con influenti eunuchi e consorti per migliorare le loro prospettive. Ma innamorarsi comportava dure punizioni, sebbene alcune legassero con funzionari di palazzo. I tentativi di fuga erano rari, poiché la cattura risultava nell'esecuzione. La maggior parte accettava la reclusione e la servitù a vita nel palazzo claustrofobico finché non venivano scartate.

· Poche manovravano magistralmente il sistema, come Wu Zetian che ascese da umile concubina a Imperatrice nell'era Tang. Ma la dispotica Cixi incarnava i pericoli di un potere incontrollato, contribuendo al crollo della dinastia Qing. Il suo egoistico regno come reggente contrastava con l'impotenza delle concubine ordinarie.

Il soffocante e regolamentato mondo delle concubine imperiali cinesi sembra oggi inconcepibile. Eppure, persistette per secoli, basato sulla sottomissione femminile. Mentre alcune perseveravano all'interno di rigidi protocolli, altre comprensibilmente si ribellavano contro l'esecrabile maltrattamento. Sebbene in gran parte dimenticate, le loro vite regolamentate sopportavano l'opprimente pressione del palazzo.

Il traumatico processo di selezione strappava anche ragazze di appena 12 anni dalle loro famiglie per essere ispezionate e addestrate. La bellezza si rivelò una responsabilità, attirando gelosie, non privilegi. Dietro la magnificenza della Città Proibita si nascondeva un disumanizzante sistema che negava alle concubine i loro diritti fondamentali.

Nonostante la mancanza di voce e l'isolamento, alcune concubine sacrificavano tutto per denunciare le condizioni intollerabili. La loro fallita cospirazione di protesta incanalava la frustrazione di migliaia che soffrivano i capricci dell'imperatore. Senza opzioni, alcune sceglievano di porre fine alla loro miseria tramite il suicidio. La verità sull'oppressione delle concubine espone la brutalità che sottendeva alla facciata di prosperità e raffinatezza della Cina imperiale.